Campo di servizio in Bosnia, l’esperienza del clan Uqbar – Reggio Emilia 3

Da soli non saremmo mai riusciti a organizzare un viaggio del genere, per questo ci siamo affidati a Tamara Cvetković, peace building advisor presso ISCOS Emilia-Romagna. Giovane donna, nata in Bosnia da genitori di religioni differenti, ha vissuto sulla sua pelle le dinamiche della guerra e da quel momento ha deciso che si sarebbe spesa per portare la pace nel mondo e porre fine ai conflitti. Tamara si è occupata di tutti gli elementi logistici, contattando le persone che ci avrebbero ospitato e molte altre, che hanno condiviso le loro testimonianze, permettendoci di entrare per qualche secondo nelle loro vite, ma soprattutto nei loro cuori.

Il periodo da Pasqua ad agosto è stato un po’ caotico, perché ci siamo trovati di colpo a dover finanziare un campo dal costo stimato di 10.000 euro. Ci siamo quindi rimboccati le maniche e in tre tre mesi abbiamo fatto i più disparati autofinanziamenti. Nel frattempo abbiamo approfondito la storia della guerra in Bosnia-Erzegovina: abbiamo assistito alla proiezione di un documentario ricco di testimonianze, raccontate proprio da coloro che avevano vissuto in prima persona le atrocità del conflitto; abbiamo visitato una mostra fotografica e letto alcune pagine del libro “La pace fredda”. Abbiamo scoperto così che il conflitto, nato dopo la dissoluzione della Jugoslavia, è stato alimentato dalle rivendicazioni degli stati confinanti sui territori della Bosnia, e che è andato avanti fino all’assedio di Sarajevo, durato un anno. La capitale era circondata dalle truppe serbe e ci sono state delle pulizie etniche nella zona di Srebrenica, in cui hanno perso la vita migliaia di bosniaci musulmani.

Il 4 agosto ci siamo trovati davanti alla nostra sede, emozionati e pieni di energia, pronti per prendere parte a questa grande avventura. Il piano era di partire da Reggio Emilia con tre furgoni noleggiati, da nove posti ciascuno, e arrivare a Konjic, in Bosnia Erzegovina, con un tempo di percorrenza totale di 14 ore. Ma gli scout non sarebbero scout senza i cari e amati imprevisti! Così, dopo una gomma bucata, il carro attrezzi e qualche sosta per rimpinzarsi, dopo ben 23 ore, siamo arrivati a destinazione. Ad accoglierci c’erano Šefik e Sedjia, i gestori di un campeggio nei pressi di Konjic, che per tutta la nostra permanenza ci hanno preparato cene e colazioni abbondantissime e non ci hanno mai fatto mancare nulla. Abbiamo montato le tende nel loro prato, poi ci siamo diretti in città, dove abbiamo conosciuto Sabina, che ci ha fatto fare un giro di Konjic e ci ha mostrato il parco pubblico, dove abbiamo svolto la nostra principale attività di servizio: un campo estivo con bambine e bambini del posto. Nei primi giorni abbiamo anche conosciuto gli scout di Konjic, che ci hanno accolto nella loro sede e ci hanno raccontato com’è lo scautismo bosniaco. Loro sono venuti sempre con noi al parco e ci hanno affiancato nel servizio.

All’inizio eravamo un po’ scoraggiati, perché a giocare c’erano pochi bambini, ma col tempo la voce si è sparsa in città e da piccolo gruppo siamo diventati tantissimi. In pochissimo tempo i bambini si sono affezionati a noi e noi a loro: non appena scendevamo dal pulmino, ci correvano incontro, ogni volta alla fine della giornata ci riempivano di domande su quando saremmo tornati, ci chiedevano foto, numeri di telefono, addirittura autografi… ci sembrava quasi di essere delle celebrità!

A Konjic abbiamo avuto anche la possibilità di andare a messa nell’unica chiesa cattolica, e dopo la celebrazione abbiamo potuto parlare con il sacerdote, che ci ha raccontato la storia di quella comunità e ci ha mostrato il museo che si trovava all’interno della canonica. Abbiamo poi conosciuto Dina, fondatrice dell’associazione Nera, che si occupa di difendere i diritti delle donne e di promuovere la loro emancipazione, lei ci ha ospitato a casa sua e ci ha offerto un pranzo. Un giorno invece siamo andati a Sarajevo, dove abbiamo incontrato Kanita-Ita Blazević, che ci ha raccontato la storia della Bosnia Erzegovina e dell’assedio di Sarajevo, che lei ha vissuto in prima persona. Sentirle raccontare di come a causa della guerra ha perso il marito davanti ai suoi occhi ci ha colpito molto. Così come è stata molto impattante la visita al Memoriale di Srebrenica. Una distesa di tombe, interminabile, della quale non si vedeva la fine. Date scritte sulle lapidi, date di persone così giovani che hanno perso la vita ingiustamente solo perché sono nate nel posto sbagliato.

Tutto ciò ci ha fatto riflettere tanto, sulla fortuna che abbiamo, su quanto spesso diamo per scontato delle cose, che invece nel resto del mondo, in alcuni paesi, non sono per nulla scontate. Immagini crude del conflitto ci hanno fatto venire i brividi e scendere lacrime amare; ci siamo resi conto di come nessuno parli di questa guerra, di come sia più facile non vedere e non sentirsi responsabili di ciò che succede lontano da noi.

In Bosnia abbiamo passato tempo con persone di diversa cultura, religione e lingua. Spesso non sapevamo come comunicare a parole, ma abbiamo scoperto che gli esseri umani non hanno sempre bisogno di parlare; a volte la sola voglia di stare insieme ti porta a lasciare perdere il fatto che non capisci quello che gli altri stanno dicendo. Ti ritrovi così a giocare a calcio o a fare braccialetti e disegni con bambini, che non parlano la tua lingua. Ma sei sicuro che è la cosa giusta, perché i loro sorrisi, i loro occhi pieni di gioia e i loro abbracci dicono molto di più di qualsiasi altra parola.

Siamo arrivati quindi alla fine del nostro viaggio, dopo aver conosciuto tante persone e dopo aver provato tante nuove esperienze, ma soprattutto ci siamo interessati e abbiamo scoperto le difficoltà di persone diversissime da noi. Eravamo soddisfatti, ma sentivamo che mancava qualcosa, sentivamo di non aver fatto abbastanza per tutte queste persone che erano state così gentili con noi, che ci avevano accolto e ospitato, e che avevano chiesto in cambio solo un po’ del nostro tempo per raccontarci la loro storia. E proprio in quel momento, grazie allo scambio con Tamara, ci siamo resi conto che anche quello era servizio: incontrare persone nuove e appassionarci alla loro storia.

È stata un’esperienza completamente diversa da tutte quelle che abbiamo fatto in passato: in una route non ci era mai capitato di mangiare tanto da stare male, di fare rafting o di sedere alla tavola con un sindaco. Tutte queste avventure di primo impatto ci sono sembrate stranissime, ma siamo sicuri che questo campo di servizio ha cambiato il nostro modo di guardare la realtà, ha messo sulla nostra strada persone, che ci hanno regalato un pezzo di sé e che con le loro parole ci hanno fatto riflettere su cose sulle quali non ci eravamo mai soffermati, e in un qualche modo ci hanno aiutato a crescere e a capire chi vogliamo essere e cosa vogliamo fare nel mondo.

R/S clan Uqbar

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