Essere e fare i capi scout al tempo del coronavirus

Padre Roberto del Riccio SJ, Assistente Ecclesiastico generale AGESCI, è stato ospite dell’assemblea della Zona di Rimini del 22 maggio 2020. Nel suo intervento si è focalizzato soprattutto sulla capacità e l’opportunità che il nostro metodo ci dà di essere ascoltatori e interpreti del nostro tempo, partendo dall’ascolto di noi stessi. Il frutto di questo ragionare e ascoltare, sarà poi a servizio dei ragazzi che ci sono affidati, per ridare loro quel protagonismo che con il mezzo digitale si è un po’ perso.

Dopo l’intervento, sono state poste alcune domande a Padre Roberto. Ci si chiede come poter tornare a fare attività, come vivere il servizio e mettersi al servizio della società, anche allargando il nostro orizzonte. Come essere sale della terra, magari anche per ragazzi che non sono nella nostra associazione. La voglia di fare, di mettersi in gioco, in maniera responsabile per salvaguardare la sicurezza dei ragazzi, è tangibile.

Essere capo è vivere insieme ai ragazzi, condividere. Abbiamo il desiderio di rimetterci al loro fianco per ripartire insieme a loro. Come in questo possiamo essere incisivi, sia come Associazione che come società? Quali sono i passi da fare partendo dal nostro piccolo arrivando al nazionale per portare la voce dei ragazzi?

“Se noi esistiamo è perché ci sono i ragazzi. L’Ask the boy dell’origine non è interpellarli sulle attività, ma dare voce al sogno che vedono, al mondo che si immaginano. A volte si tratta solo di mettersi in ascolto, imparando davvero dai nostri ragazzi. Non focalizzarsi sul trasmettere contenuti, ma ascoltarli davvero e metterli al centro”.

Questo periodo può essere considerato il momento per ripensare alle chiavi vincenti del nostro metodo per il futuro?

“Proprio perché ci manca il modo di fare scautismo nella sua interezza abbiamo l’occasione di capire cos’è essenziale. Da una parte ci dobbiamo chiedere che cosa, nelle attività che abbiamo preparato nel lockdown, non prendeva. E che cosa invece sì, anche se forse non ce lo saremmo aspettato. Dove i nostri ragazzi hanno reagito? Dove ci hanno sorpreso e superato? È lì che dobbiamo andare. Capire cosa ha funzionato ed è in sintonia con le nostre specificità, per ripartire da ciò che è stato positivo e valorizzarlo nel futuro”.

Cos’è lo scautismo nel momento in cui le cose centrali, cioè la relazione con i ragazzi e la vita all’aria aperta, non ci sono? Il rischio è di aspettare che si torni a una situazione normale o perlomeno accettabile dal punto di vista del metodo. Se non arrivano, quali spiragli possiamo sfruttare per non perdere le radici, su cosa possiamo puntare?

“Tra fare zero e fare cento ci sono varie sfumature. Adesso si tratta di individuare cosa della nostra esperienza all’aria aperta e di contatto possiamo recuperare. Come posso trovare la via per fare qualcosa in maniera responsabile, con attenzione alle norme? Forse non potrò fare tutto secondo il metodo, ma devo puntare a ciò che è essenziale. Qualunque cosa è più di zero. Non dobbiamo avere l’illusione di aspettare la situazione normale per rifare tutto, anche perché forse non tutto deve essere recuperato”.

Le parole “reinventarsi” e “ripensare” vanno molto di moda, ma fanno sembrare che tutto quello vissuto sino a ora sia stato un po’ subito. Forse reinventarsi è una riscoperta del metodo, un tornare a utilizzarlo?

“Se i ragazzi devono essere i protagonisti, è bene che le situazioni in cui vengono messi siano alla loro portata. In cui abbiano possibilità di fare vita materiale, in cui si è coinvolti con il corpo. Siamo fatti di carne ed ossa, per questo siamo deboli, fragili. Dobbiamo offrire contesti in cui i ragazzi possano essere protagonisti con una connessione reale, questa è la forza della vita all’aria aperta. Anche tutte le pratiche che riguardano le regole sanitarie hanno a che fare con la vita, con quella materiale perché ci ricordano che abbiamo un corpo”.

Come si può stare accanto ai nostri ragazzi nella dimensione della fragilità che adesso è così evidente? Questa situazione ha reso evidente la nostra condizione di precarietà, che fa parte della vita umana. Come possiamo camminare insieme ai nostri ragazzi?

“Questa condizione ci insegna a non nascondere la fragilità, che però non significa scaricare le proprie preoccupazione sui ragazzi. A volte copriamo le nostre debolezze pensando di acquistare o conservare un’autorità. Ma noi capi siamo compagni di strada e dunque possiamo fare fatica. E mostrandole, lasciando che i ragazzi le rivelino e le guardino acquistiamo autorevolezza. Poi la maturità del capo sta nel non caricare il ragazzo delle sue difficoltà”.

Lucia Zoffoli

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