Sono un capo del Gruppo Piacenza 1 e sono un medico rianimatore. Sono stato contagiato dal coronavirus. Per fortuna non ho avuto sintomi respiratori, ma sono dovuto rimanere a casa, in isolamento, per circa 5 settimane, senza poter andare a lavorare, anche se ora ce ne sarebbe un enorme bisogno… e questo non è stato facile da accettare.
Il mio lavoro è un servizio, nel vero senso della parola: sulla carta intestata c’è scritto “servizio di anestesia e rianimazione”… ma ora? La mia esperienza di servizio è un po’ particolare in questi giorni di reclusione domiciliare.
In questi giorni mi sono chiesto davvero cosa potevo fare per gli altri, e sono stati giorni pienissimi, anche se deprivati del “contatto umano” che caratterizza il nostro essere umani, ed anche del “fare”, dell’attività che caratterizza il nostro essere scout.
Ho parlato al telefono con molte persone ammalate, cercando di dare consigli su come gestire la febbre, la spossatezza, la fatica a respirare. Su quando chiamare il 118 o su quando era meglio restare a casa e fare le cose migliori per guarire. Ho dato ai familiari spiegazioni semplici e comprensibili su ciò che stava avvenendo dentro l’ospedale.
Ho cercato di supportare i miei colleghi, che mi chiedevano di fare ricerche bibliografiche su linee guida per indicazioni terapeutiche o gestione clinica dei pazienti ricoverati.
Ho diffuso informazioni mediche a colleghi di altri ospedali. Ho scritto progetti, ho corretto bozze di pubblicazioni scientifiche. Ho cercato di comprendere, dai messaggi che ricevevo dai miei colleghi “al fronte”, cosa potevamo fare per curare meglio i pazienti, certo, ma anche cosa si poteva fare per cercare di rendere meno terribile ed agghiacciante l’isolamento inevitabile fra i pazienti e i loro familiari che rimanevano a casa.
Ho cercato di fare qualcosa per i medici e gli infermieri, perché questa pandemia rischia di lasciare ferite molto profonde anche in chi ha dovuto soccorrere gli ammalati, curarli o accettare inevitabilmente che morissero, rischiando in ogni momento di ammalarsi a propria volta.
Certo, non è facile dare un senso a qualcosa che appare immediatamente tragico, inaccettabile, portatore di dolore e solitudine. Ma non abbiamo scelta: la nostra realtà è questa. Oggi. San Francesco diceva “dal male può nascere il bene”, può nascere una vita rinnovata.
Nella scelta di servire, si può anche stare per 10 ore al giorno seduti davanti a un computer, o parlando al cellulare… ciò che conta è non perdere la rotta, seguire quella “stella in alto mare” di cui ci parlava Guy de Larigaudie anche quando è più difficile, dentro la tempesta più nera. Il servizio è attenzione al prossimo. Se proprio non possiamo aiutarlo “concretamente”, possiamo ascoltarlo, possiamo guidarlo a concentrarsi su ciò che ancora avviene di buono, o possiamo quantomeno aumentare la consapevolezza della realtà che stiamo vivendo, possiamo legittimare le paure, il dolore, l’incredulità… e così renderli meno terribili… perché condivisi.
Anche ora che siamo tutti in isolamento, possiamo permettere a qualcuno di “non sentirsi solo”. E questo, secondo me, è l’inizio della rinascita, dell’affermazione che siamo presenti e collegati, segno ognuno per l’altro della presenza dell’Amore di Dio anche su questa terra martoriata.
Giovanni Mistraletti – Piacenza 1
Foto di Francesca Nusco
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