Un numero sulla pace non poteva non riportare l’esperienza di Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, vicinissima al mondo scout.
Abbiamo parlato con Alberto Capannini uno dei fondatori di Operazione Colomba, nei giorni in cui era ritornato in Ucraina, in un villaggio nella periferia di Mykolaïv, al confine con l’oblast di Kerson. Alberto ci racconta che Operazione Colomba è fatta di volontari, italiani e non, che vanno a vivere in zone di conflitto per non lasciare sole le persone che vivono in mezzo alla guerra. “Per non pensare solo a noi, nel senso che pensiamo che la nostra vita valga come la loro”, spiega Alberto. “L’operazione è cominciata nel 1992, con la guerra in ex-Juogoslavia, e oggi siamo presenti in diverse zone dove ci sono conflitti, come in Colombia, con i migranti in Grecia, in Cile con i Mapuche, popolazione indio locale, in Palestina e Israele, qui in Ucraina e in Libano e Siria”.
Alberto racconta com’è la quotidianità in Ucraina, dove da ormai tre anni persiste la guerra. “Tuttora è una situazione difficilissima, perché è uno scontro fra chi vuole vivere alla maniera europea e invece chi vuole vivere come propone la federazione russa, quindi la differenza di chi vuole stare sotto una democrazia, seppur sgangherata, e chi vuole stare sotto un’autocrazia”. I volontari vivono nelle zone sul fronte. “Quando è scoppiato il conflitto siamo stati per un periodo a Lopoli, la città più a ovest dell’Ucraina e quindi in contatto con l’Europa, dove si ritrovavano milioni di rifugiati in fuga dal fronte. Noi ogni mattina andavamo in stazione a vedere se potevamo fare qualcosa per questi profughi che scappavano, a migliaia. Per un periodo abbiamo anche vissuto in un convento, che accoglieva persone in fuga dal fronte”. A Leopoli e Odessa i volontari di Operazione Colomba hanno organizzato anche due carovane internazionali “stop the war now”, insieme a centina di associazioni italiane, tra cui AGESCI. “Con queste carovane portavamo aiuti e riportavamo indietro persone in difficoltà che venivano accolte in Italia”.

Il tempo passa, l’attenzione dei media scema, ma non la costanza del servizio dei volontari. “Da Odessa, che è sotto al fuoco dell’artiglieria delle navi russe, ci siamo postati a Mykolaïv, quando nel 2022 c’era il fonte, poi il fronte si spostato a Kerson e noi ci siamo postati con lui. Adesso nella parte ovest del fiume Dnepr c’è il governo ucraino, e dall’altra parte c’è la presenza russa, che bombarda tutto il giorno, tutti i giorni, in particolare in questi ultimi mesi con i droni. Kerson è tristemente famosa perché viene utilizzata come campo di addestramento sui civili per l’uso dei droni da parte dell’esercito russo. Ma oltre ai droni cadono proiettili, missili, artiglieria, veramente di tutto. Ci sono momenti molto frequenti in cui ci sono esplosioni ogni minuto”.

I volontari vivono con una comunità evangelica che ha scelto di rimanere, che affronta il disastro della guerra come comunità, che è la vara alternativa alla guerra. “La guerra è il posto dove vince il più violento, mentre nella comunità chi è più fragile detta il passo. Veramente quindi l’alternativa alla guerra è la comunità, che permette di continuare a vivere in queste zone”. Alberto spiega che sotto un bombardamento continuo si può vivere solo con la solidarietà. Raccogliendo e distribuendo aiuti, andando a trovare persone in difficoltà e continuando la vita di comunità. “La casa in cui stiamo vivendo appartiene a una coppia, marito e moglie, che ci hanno accolto da più di un anno. Il marito è stato preso forzatamente a un check point, per essere arruolato. Ha 27 anni e si è rifiutato di fare servizio militare. Al momento lo hanno trattenuto, ma almeno non è al fronte”. Nella sventura la comunità da sostegno. “La comunità ha scelto di non lasciare sola la moglie: oltre a permettere a noi di rimanere, ha chiesto a un’altra famiglia di andare a vivere li con lei, due ragazzi appena sposati che hanno scelto di rimanere a Kerson. Per noi è incomprensibile come due ragazzi appena sposati abbiano deciso di rimanere a Kerson. Da noi per sposarti o per andare a vivere insieme servono tante sicurezze, qui non hanno veramente nessuna sicurezza: la risposta alla violenza della guerra è questa cosa fragilissima, di due ragazzi, lui di 20 anni e lei di 18 che scelgono di volersi bene”. E probabilmente è veramente questa la risposta alla guerra.

Durante la giornata i volontari fanno tutto ciò che è necessario per aiutare la popolazione. “Adesso stiamo lavorando in una fattoria, che serve a produrre cibo e latte per le persone. Abbiamo anche dato una mano a ricostruire la sede di questa comunità, una ex casa del popolo che è stata per metà distrutta da due droni. Abbiamo dato una mano a risistemarla con una manovalanza molto poco qualificata da parte nostra e durante il giorno andiamo a distribuire aiuti e viviamo con loro”.

Quello che i volontari possono raccontare non è solo il disastro della guerra, ma anche la solidarietà del provare a non arrendersi. “La violenza è la cosa più forte che sappiamo utilizzare per affrontare le situazioni difficili? NO! Quello che ci dicono tante di queste persone è che bisogna essere umani e comportarsi con umanità anche in situazioni così nere, senza prospettiva”.




Negli ultimi giorni Alberto sta girando “con un ragazzo polacco e una ragazza slovacca, che hanno scelto di stare qui a fare i volontari, e aiutare le persone, facendo animazione nei villaggi ancora distrutti, non pagati perché sono volontari appunto”. Questo testimonia una fortissima crisi delle Istituzioni, che sanno solo proporre la guerra come risposta alla violenza, ma c’è una forte risposta delle persone. “Pensare di lasciare questa guerra a chi è più forte non ha senso, perché la risposta non è l’Ucraina si arrende, ma gli ucraini vengono ammazzati, come in Israele e Palestina, non si può lasciare la soluzione agli israeliani perché si sa già come finisce”. Per Alberto la speranza risiede in quella fetta di Europa che crede nelle soluzioni nonviolente. “È una parte minoritaria, ma non ci importa, perché le maggioranze non fanno i cambiamenti, ma resistono ai cambiamenti. Bisogna sperare nelle minoranze creative, come diceva Martin Luther King”.

No Replies to "L’alternativa alla guerra è la comunità"
I commenti sono moderati.
La moderazione potrà avvenire in orario di ufficio dal lunedì al venerdì.
La moderazione non è immediata.