Senza casa, storie dal dormitorio di Parma

Molte storie hanno un lieto fine. Del resto è importante che una storia abbia un lieto fine, che nonostante tutte le avversità vissute, in fondo i protagonisti riescano a ottenere ciò che desideravano, grazie soprattutto alla propria determinazione, alla forza di volontà che ha imposto sacrifici, ma ha pure portato ad alcune realizzazioni e certezze, anche positive.

La realtà, non solo la fantasia, come ormai il grande cinema ci ha abituato, offre prove di coraggio notevoli, quelle che ti portano a strabuzzare gli occhi, a farti alzare in piedi, a versare lacrime empatiche, chiedendoti se sia possibile, se sia vera per davvero, quella storia.

La nostra, quella dei tantissimi volontari che si sono mobilitati per svolgere il servizio nel dormitorio di strada del Cornocchio 27/3, a Parma, non è più strana di tante altre storie, e come tutte o quasi, è un breve paragrafo di un capitolo che a sua volta è parte di un libro molto più grande. Libro emergenze sanitarie, capitolo Covid-19, sottoparagrafo senza fissa dimora.

Atto primo: osservazione

Parma è una città relativamente contenuta, larghi tratti della sua periferia si scoprono essere già campagna, con tutti i caratteri propri di questa dimensione. Dal centro città al dormitorio si impiegano 10 minuti in bici, eppure già qualche centinaio di metri prima della struttura ti ritrovi tra l’erba medica e le spighe appena tagliate. La struttura, se non sai che è proprio lì che devi andare, la noteresti a fatica, derubricandola a spazio abbandonato. Solitamente la rete arancio fluo da cantiere sommata a sterpaglie e frasche incolte, è segnale esplicito di cessazione di qualsivoglia attività umana regolare. Passi oltre. Oppure no, entri, attraversi lo slargo in ghiaia maltenuto, e verifichi che in quelle quattro unità prefabbricate color giallo opaco, vivono una decina di persone. Queste hanno a disposizione un’ora d’aria per uscire nell’arco di una giornata (poi diventate due a maggio inoltrato); una cucina che non possono usare, il refettorio, le camerate con i letti a castello e un cortile che non vede un giardiniere da settimane. A rotazione, ogni quattro ore, coppie di volontari si danno il cambio turno per controllare uscite, entrate, prendere in consegna le scatole di cibo dagli operatori della Caritas, infine fornire agli utenti il sapone in un bicchiere di plastica, i rotoli di carta, di quella che trovi in autogrill per asciugarti le mani, per fare la doccia, rasoi usa e getta, schiuma da barba, disinfettante, cotone, guanti in lattice ecc. Primo turno, uniche informazioni. E gli utenti chi sono? Senzatetto, no?!
Referto del primo giorno: un incendio della zona limitrofa al cortile, isolato con sei estintori, qualche secchiata d’acqua, un rastrello preso in prestito dai vicini (in camper), e il tempestivo intervento dei vigli del fuoco. Bollettino: nessun ferito, nessuna ustione. Chi siete voi? Chiede il comandante in giaccone ignifugo fluorescente. Siamo dei volontari.

Atto secondo: molto più lungo del primo, non qui, in tempo reale

All’insegna dei verbi “dedurre” “supporre”, “presumere”, t’improvvisi detective, pompiere non bastava, ti lavi la faccia che ancora odora di affumicato, realizzi dove sei veramente, il contesto in cui ti trovi, il tuo ruolo, e poi? E poi chi sono quelle dieci persone che ieri domavano le fiamme assieme a te? Il battesimo del fuoco ha avuto la funzione di rottura del velo di estraneità e indifferenza che solitamente separa nelle prime fasi, sconosciuti volontari catapultati nell’incontro del servizio, con sconosciuti individui, la maggior parte dei quali potrebbero essere tuo padre.

La nostra storia trova dei nomi, Ciprian, Dario, Hedi, Mykola, Mohamed, Smart, Aimen, Peter, Artan, Neji, Mustafa, Kofi, Khalid. Nomi propri di persona dietro cui esistono strade di vita, reticoli infiniti che collegano ubicazioni, lavori svolti, confini superati, persone incontrate e istituzioni varcate: queste persone hanno appreso l’arte del vivere in stato di precarietà, resistendo alla rassegnazione che si cela dietro chi vive in perenne stato di sopravvivenza.

La collaborazione reciproca di fronte a un’emergenza ha accelerato gli usuali tempi previsti per lo sviluppo di una confidenza reciproca. Guidati da un entusiasmo ingenuo, dal profondo desiderio di voler fare qualcosa di concreto e nella convinzione che non avessimo nulla da perdere, abbiamo fantasticato progetti di reportage, desideravamo raccontare il significato nascosto dietro quelle vite attraverso foto e interviste. È il morso del più, come direbbe don Luigi Ciotti, quel miscuglio di emozioni positive che si sbracciano a due mani, vagando in testa in attesa di trovare uno sbocco all’esterno, una praticità a cui aggrapparsi, d’altronde se siamo noi in quarantena lo sono pure le nostre emozioni. Lo scout non cessa di pensare. Esplora.

Si possono provare a immaginare alcuni frammenti delle vite di chi, contro la propria volontà, ha dovuto imbarcarsi in attraversate mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri famigliari, che dei soldi di chi parte hanno un vitale bisogno. Ciò che risulta molto più arduo è comprendere la complessità insita in ciascuna esperienza individuale.

Chi lotta per sopravvivere non solo fronteggia quotidiane lotte per guadagnarsi di che campare, ma si scontra anche con la ridondante macchina burocratica di ogni stato, con le contraddizioni sistemiche delle democrazie occidentali, finanche con la stessa umanità degli apparati giudiziari locali, in cui la corruzione non è materia oscura, anzi.

In fondo è sotto gli occhi di tutti: dipende sempre da chi ti trovi davanti. È stato così per Peter che, partito dal Mali, è stato rimbalzato tra le prefetture di Agrigento, Parma e Zurigo, in cerca di un permesso, di uno status giuridico che gli permettesse di lavorare. Il Mali non è in guerra civile, ma la fallita modernizzazione dello stato ha cambiato il volto dei vecchi conflitti, oggi sono jihad, sono milizie autonome che rivendicano un proprio ruolo nel panorama locale. I giovani lasciano i villaggi per l’Europa, senza la paura di morire, perché “morire è diventato banale”.

Chi lotta per sopravvivere ha un margine di errore molto inferiore rispetto al normale, gli errori commessi sono macchie nere indelebili sulla fedina penale, e contengono potenziali inneschi per lunghi e viziosi circoli di altri sbagli e altre pene. Neji è stato in carcere per nove anni non consecutivi (sommando le diverse volte in cui è entrato, uscito e rientrato), non può rivedere le sue due figlie, che vivono con la madre.

Aimen fatica a parlare di sé, al dormitorio si sente come in carcere. Chi sono i poliziotti qui? Voi (volontari ndr), ride. Ha vissuto a Berna per 13 anni, lì si era costruito una vita, aveva un bar con un suo amico, grazie ai narghilè guadagnavano due/tremila euro al giorno, è bastata una legge che impedisse di fumare nei locali chiusi, che il fatturato si è ridotto fino a dieci volte. A quel punto i problemi sono arrivati tutti insieme, e i soldi sono finiti in poco tempo. “Se tornassi indietro non verrei mai in Europa, starei nel mio paese (Tunisia, ndr) da povero è meglio, i soldi non sono la fortuna, avere una famiglia è la fortuna”.

Senzatetto è una parola monca, rimanda a un significato parziale ed è evidentemente prodotto di chi senzatetto non è mai stato. Il tetto sembra diventare fattore non prioritario quando hai visto la morte in faccia, quando lasci, forse per sempre, la tua famiglia, quando ti trovi a dover cambiare criteri di valutazione, a mutare radicalmente il tuo stile di vita rinunciando al futuro in termini di progetti e di sogni che dovrebbero essere una libertà, non un diritto, come il lavoro. Anche sognare nobilita l’uomo.

Atto terzo: accettazione dello stato delle cose

L’idea è rimasta idea e non è mai divenuta progetto, le interviste sono diventate chiacchierate, le foto sono cornici di momenti divertenti. Forse sono mancate le competenze, gli strumenti o anche una condivisione estesa a tutti i volontari presenti (eravamo solo tre). Forse mancava la credibilità, se fosse stato un percorso condiviso anche con le istituzioni o con le associazioni coinvolte avrebbe potuto avere un finale diverso. Forse. Ma sono ipotesi e tali rimangono, perché alla fine, anche se la sensazione è stata la carenza di un manu factus finale, le precedenti fasi di osservazione e deduzione hanno, esse stesse, compreso una fondamentale parte attiva.

Quello che avrebbe dovuto, nei nostri calcoli scout, portare all’azione concreta esisteva già ed era la conoscenza, l’incontro tra vite, persone e ruoli così diversi tra loro che inevitabilmente è scaturito in un surplus di crescita partecipata e condivisa da tutti.

Atto quarto: celebrazione del nostro incontro

Il servizio è durato una settimana in più rispetto al Ramadan, che quest’anno cadeva in aprile. L’Eid Mubarak, il pasto-festa dopo l’interruzione del digiuno osservato dai mussulmani, è stata la festa di tutto il dormitorio che ha vissuto momenti di ballo e canto come forse non era mai accaduto prima.

La normalità di questa struttura è restare aperta solo la notte per offrire un tetto a chi non ce l’ha. In quest’emergenza non è stata una casa, né, probabilmente una comunità; ma il servizio porta significato, porta storie e persone diverse a incontrarsi.

Nicola Cavallotti – Parma 9

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